Danno da malattia per causa di servizio

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I giudici del Palazzaccio sono stati chiamati ad esprimersi in ambito di malattia per “causa di servizio”.

Gli Ermellini hanno stabilito, mediante l’ordinanza n. 17707 del 2 luglio 2019, che “ la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.

Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro e, solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze, sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.

Né la riconosciuta dipendenza delle malattie da una “causa di servizio” implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell’ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell’organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall’ambito dell’art. 2087 cod. civ., che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata, come già detto, a criteri probabilistici e non solo possibilistici“.

Hanno poi aggiunto che per quanto concerne le “misure di sicurezza cosiddette ‘nominate’ – il lavoratore ha l’onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa – ovvero il rischio specifico che si intende prevenire o contenere nonché, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l’inosservanza della misura ed il danno subito e la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore.

Ossia nel riscontro dell’insussistenza dell’inadempimento e del nesso eziologico tra quest’ultimo e il danno, nel secondo caso valendo, invece, la regola che la prova liberatoria a carico del datore di lavoro (fermo restando l’onere probatorio spettante al lavoratore) debba essere correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore dì lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli ‘standards’ di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe”.

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